Pubblicato da Federica Ferrario
il 22/12/2025
Patate, pietre, letame e copertoni dati alle fiamme. Le immagini delle proteste degli agricoltori che hanno attraversato l’Europa e sono arrivate fino a Bruxelles sono potenti.
Ma non inaspettate. Sono il segnale di un malessere profondo che attraversa l’agricoltura europea da anni, fatta di redditi compressi, costi in aumento, filiere squilibrate, trattati commerciali che rischiano di fare male al settore e politiche incapaci di offrire risposte strutturali a chi lavora la terra.
Per capire cosa sta succedendo, però, è necessario partire da una domanda semplice e spesso elusa: perché gli agricoltori stanno protestando?
Le ragioni principali delle mobilitazioni di queste settimane sono due, e hanno entrambe a che fare con scelte politiche europee che incidono direttamente sul reddito agricolo.
La prima riguarda la Politica agricola comune (PAC), da tempo percepita come iniqua e inefficace. Nonostante assorba circa un terzo del bilancio europeo, la PAC continua a concentrare la maggior parte delle risorse su una minoranza di grandi beneficiari, senza garantire reddito dignitoso alla maggioranza delle aziende agricole, in particolare quelle piccole e medie. Ma il tema vero che preoccupa gli agricoltori e le associazioni di categoria è l’annunciato taglio del 23% del budget assegnato all’agricoltura nella prossima PAC. Una cifra effettivamente non da poco.
La seconda riguarda l’accordo commerciale tra Unione europea e Paesi del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay). L’intesa, in discussione da oltre vent’anni, punta a liberalizzare ulteriormente gli scambi commerciali, facilitando l’ingresso nel mercato europeo di prodotti agricoli – in particolare carne e mangimi – provenienti da Paesi dove gli standard ambientali, sanitari e sul lavoro sono più bassi di quelli richiesti agli agricoltori europei. Per chi produce in Europa, questo significa concorrenza al ribasso, pressione sui prezzi e ulteriore difficoltà nel mantenere pratiche più sostenibili senza adeguate tutele.
Da questo punto di vista, quindi, molte delle rivendicazioni che arrivano dalle piazze sono legittime. Ha senso chiedere una profonda revisione della PAC, perché così com’è non tutela il reddito agricolo, non riduce le disuguaglianze e non accompagna davvero la transizione ecologica. Ha senso contestare un accordo commerciale come il Mercosur, che rischia di scaricare sugli agricoltori europei il costo della competizione globale.
Eppure, quella di questi giorni è stata una protesta apparentemente semplice ma allo stesso tempo difficile da interpretare, perché dietro parole d’ordine apparentemente condivisibili sembra che a prevalere sia la stessa strategia che ha dominato la scena in questi anni: la crisi dell’agricoltura sarebbe causata dal Green Deal europeo, da troppe regole ambientali, da un eccesso di vincoli burocratici. Una narrazione comoda, che individua un capro espiatorio chiaro e immediato, ma che rischia di distorcere il problema invece di risolverlo. Insomma, è il secondo tempo di quello che avevamo già descritto nel nostro rapporto La transizione tradita.
E questo spiega anche una delle contraddizioni di queste proteste: nelle strade sono arrivati i trattori - quelli che siamo abituati a vedere abitualmente nelle nostre campagne - ma anche i John Deere americani, mezzi che valgono centinaia di migliaia di euro, simbolo di un settore sempre più polarizzato.
In questi anni, la direzione intrapresa dall’Europa ha, nei fatti, disconosciuto la transizione ecologica per dare seguito alle spinte di una certa parte del mondo agricolo.
E l’ha fatto con lo strumento delle semplificazioni, una parola tanto affascinante quanto pericolosa con sui si stanno cancellato o indebolendo gli obblighi su rotazioni colturali, prati permanenti, aree per tutelare la biodiversità e pagamenti legati al ripristino degli habitat, trasformandoli di fatto in semplici compensazioni per “non fare troppi danni”, anziché in incentivi alla necessaria transizione (come i cambiamenti climatici ci ricordano sempre più spesso).
Insomma, la “semplificazione” è la chiave con cui alleggerire regole e controlli per i grandi attori industriali, scaricando costi e rischi su ambiente, cittadini e alla fine penalizzando anche le aziende agricole, le più piccole, che pagheranno il prezzo più salato.
Il pacchetto Omnibus è un esempio emblematico: nel caso dei pesticidi, infatti, le proposte di revisione hanno incluso l’allungamento delle autorizzazioni per molti principi attivi, l’allargamento del campo di applicazione alle deroghe a sostanze già vietate; hanno allentato le valutazioni dei rischi senza l’obbligo di considerare le ricerche scientifiche più aggiornate. Significa continuare a tenere sul mercato, nei nostri campi e sulle nostre tavole molecole di cui, nella migliore delle ipotesi, conosciamo solo in parte gli impatti su salute, biodiversità e acqua, e nella peggiore sappiamo essere tossiche conclamate.
Allo stesso modo, il ridimensionamento delle direttive europee sulla rendicontazione e sulla due diligence delle imprese riduce trasparenza e responsabilità lungo le filiere, rendendo più opachi gli impatti ambientali e sociali dei prodotti che consumiamo. In nome della competitività, si rinuncia a strumenti che avrebbero potuto riequilibrare rapporti di forza e dare maggiore tutela anche agli agricoltori.
Se da una parte le proteste dei trattori di questi anni sono state strumentalizzate per cancellare il Green Deal, la rabbia dei trattori di queste settimane coglie un punto reale, ad esempio, quando si tratta del Mercosur: è difficile chiedere agli agricoltori europei di investire in pratiche più sostenibili se, nello stesso tempo, si apre sempre di più al commercio con Paesi dove standard su pesticidi, diritti del lavoro e deforestazione sono più deboli.
Qui emergono due anime distinte: da una parte gli agricoltori che chiedono lo stop a questo accordo ormai desueto (è in discussione da oltre 20 anni, e rappresenta un mondo che non esiste più da tempo), dall’altro una parte dell’agroindustria che lo considera strategico per importare materie prima a basto costo. Ad esempio, la carne verrebbe importata a costi più bassi di quelli europei, per poi essere rivenduta e magari riesportata con il bollino a “made in Italy”. Il piccolo particolare è che si tratterebbe di carne prodotta a scapito di ettari di foreste abbattute per fare largo a pascoli, oppure utilizzando ormoni per la crescita – come l’Estradiolo E2 – vietate in Europa.
Il Mercosur diventa così una cartina di tornasole di questa contraddizione. Da un lato, gli agricoltori chiedono di fermare un accordo che li mette in competizione con produzioni ottenute a costi ambientali e sociali più bassi. Dall’altro, una parte dell’agroindustria lo considera strategico per importare materie prime a basso costo e aumentare l’export di prodotti trasformati, anche a scapito di foreste, diritti del lavoro e standard sanitari.
Non stupiscono le dichiarazioni di Federalimentare o di Assica, l’associazione Industriali delle Carni e dei Salumi, che “ribadisce la necessità di procedere rapidamente alla firma dell’Accordo UE-Mercosur, considerandolo un passaggio strategico per assicurare nuove opportunità di export al comparto delle carni e dei salumi italiani”. Così come non stupisce il recente protagonismo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che nel giro di poche ore passa dall’essere schierata insieme al presidente francese Macron e agli agricoltori contro il Mercosur, a sostener con Lula che l’Italia in realtà è a favore: “Ho parlato con Meloni e mi ha spiegato che non è contraria all'accordo, che sta vivendo un certo imbarazzo politico a causa degli agricoltori italiani, ma che è certa di poterli convincere ad accettarlo.”
Il punto centrale, allora, non è se rivedere la PAC o fermare il Mercosur, ma in quale direzione farlo. Lo ribadiamo: il vero bivio non è tra agricoltori e ambiente, ma tra due modelli agricoli: uno industriale, ad alto input e sempre più concentrato nelle mani di pochi, e uno passato su piccole e medi aziende e su pratiche agroecologiche, su suoli vivi e comunità rurali.
Le proteste dei trattori mettono in luce problemi reali: la concentrazione degli aiuti PAC su una minoranza di beneficiari, la perdita di valore lungo le filiere, chiusura di migliaia di aziende agricole.
Servono politiche che affrontino le cause strutturali: riequilibrare la distribuzione degli aiuti verso piccole e medie aziende, rafforzare i diritti contrattuali degli agricoltori nella filiera, sostenere davvero l’agroecologia (meno input, più servizi ecosistemici), garantire che chi produce nel rispetto di standard più alti non venga schiacciato da importazioni sottocosto. Invece, i pacchetti omnibus, le deroghe sui pesticidi, l’accordo Mercosur vanno nella direzione opposta: meno vincoli per chi inquina, più incertezza per chi prova a cambiare.
Se c’è un messaggio che le proteste di Bruxelles rendono evidente, è che la transizione non può essere costruita contro gli agricoltori, ma neppure contro clima, natura e salute. Oggi i trattori sono usati come ariete contro il Green Deal, mentre il vero conflitto è fra due modelli: da un lato, l’agricoltura industriale ad alto input, dipendente da sussidi e mercati globali volatili; dall’altro, un sistema fondato su aziende più piccole e medie, agroecologiche, capaci di rigenerare suolo, paesaggi e comunità. Le stesse aziende agricole che oggi stano chiudendo, fagocitate da quelle più grandi e industriali e da multinazionali straniere.
Per evitare che la frustrazione di chi lavora la terra venga strumentalizzata da chi ha interesse a indebolire ogni regola, serve una nuova alleanza fra agricoltori, consumatori, sindacati, movimenti climatici e amministrazioni locali.
Una coalizione che chieda non meno Green Deal, ma un Green Deal più giusto: con una PAC che premi il lavoro, la cura degli ecosistemi e la qualità del cibo (non i fatturati delle grandi aziende), e con accordi commerciali e norme europee coerenti con l’idea che la vera competitività del futuro si costruisce su suoli vivi, aria respirabile e comunità rurali in salute.
Il prossimo 17 gennaio, a Roma, nell’assemblea romana di Terra Comune, ci sarà spazio per discutere di tutto questo.
Federica Ferrario
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