Dai campi ai supermercati: come si riproduce il modello del caporalato nel Sud e nel Nord Italia

Pubblicato da Fabio Ciconte

il 02/05/2024

lavoratori in serra

L’appuntamento è alle prime luci dell’alba, alle cinque in punto per l’esattezza. Karim – il cui nome è di fantasia per garantirne l’anonimato – si fa trovare sempre in orario, al solito posto, all’angolo poco illuminato del piazzale. È a quell’ora che passa il furgone della cooperativa per portarlo a lavorare nei campi. Siamo nella provincia di Mantova, terra dove si coltivano migliaia e migliaia di meloni, che poi andranno raccolti per essere venduti nei supermercati di tutta Europa. Karim e i suoi connazionali sanno che la giornata sarà di undici, dodici ore di lavoro massacrante. Undici, dodici ore senza neppure conoscere il nome della cooperativa che lo ha assoldato, né quello del proprietario dell’azienda agricola presso la quale raccoglierà la frutta. Ma quando inizia la fase della raccolta non si guarda in faccia nessuno. Del resto, con le sue 90mila tonnellate, la provincia di Mantova è il primo polo produttivo di meloni in Lombardia, la seconda regione italiana per volumi dopo la Sicilia. Da marzo a ottobre, le aziende devono muovere lavoratori al massimo della velocità. Quasi la metà della forza lavoro è di origine straniera. Sono indiani e marocchini, perlopiù stanziali, anche se di recente stanno subentrando i lavoratori dell’Est Europa, più sfruttabili e più ricattabili.

Quella di Karim è una delle testimonianze raccolta dai ricercatori di Terra! nel rapporto “Cibo e sfruttamento. Made in Lombardia” e racconta una storia di lavoro massacrante nelle campagne, con turni che non finiscono mai, paghe da fame e soldi trattenuti per il trasporto e il vitto. Assunto da «una cooperativa senza terra» e «trascinato in ogni anfratto della provincia, sconfinando anche in Veneto», Karim si è visto persino trattenere 500 euro per avviare la pratica della sanatoria: «La regolarizzazione ha un costo», gli hanno spiegato. Di storie come queste ce ne sono a migliaia, nascoste nei ghetti del Sud Italia o del ricco Piemonte, storie che troviamo nei campi di kiwi dell’Agro Pontino così come negli allevamenti di maiali della Pianura Padana. Persone costrette a vivere in alloggi di fortuna, masserie semi abbandonate, capanne di lamiera e cartone, costrette ad accettare qualsiasi cosa pur di guadagnare un misero salario per sé e per le proprie famiglie.

Per molti di loro, in questi anni, lo sfruttamento è arrivato fino al punto più estremo. Se il caso più emblematico è stata la morte di Paola Clemente nel 2015, in questi anni di vittime se ne contano a decine. Camara Fantamadi era un ragazzo di appena 27 anni, originario del Mali, morto stroncato da un malore a giugno del 2021, dopo una giornata trascorsa a lavorare nei campi sotto la morsa di un caldo insopportabile. Le cronache locali hanno raccontato che intorno alle 17, dopo aver accusato un giramento di testa, ha lasciato i campi per rientrare a casa in bici. Nelle campagne tra Brindisi e Tuturano, distante ancora da casa, dove il fratello lo attendeva, il ragazzo si è accasciato senza riprendere più i sensi.

Il caporalato: un fenomeno europeo

Se è vero che il caporalato affonda le radici nelle campagne del Sud Italia, negli ultimi anni ha saputo allargarsi a macchia d’olio ovunque nel territorio nazionale ed è presente tal quale anche in diversi paesi europei, a partire da Spagna e Grecia. Al nord si è evoluto in forme di sfruttamento più ricercate, che riescono a sfuggire ai controlli perché hanno una facciata pulita e apparentemente legale. Il caporalato di questi luoghi non prevede ghetti né rotonde, come siamo abituati a vederli al Ssud. Nell’immaginario collettivo, in effetti, caporalato vuol dire ghetto, una baraccopoli dove vivono migliaia di persone in condizioni drammatiche, spesso in case allestite con cartone e lamiera, senza servizi igienici essenziali. Questi ghetti, negli anni, hanno rappresentato il “centro di reclutamento” dei lavoratori, il luogo dove, ogni mattina, il caporale poteva attingere la manodopera necessaria. Ma queste strutture – il caso più emblematico è Borgo Mezzanone, il ghetto pugliese nato nella ex pista aeroportuale – oggi in realtà non rappresentano solo centri di reclutamento che si svuotano a fine stagione ma luoghi abitati durante tutto l’arco dell’anno da persone – molte delle quali irregolari – che non hanno altro luogo dove vivere se non quello.

Perché ci siano forme di sfruttamento e caporalato non è necessario che vi siano ghetti o masserie abbandonate. Ed è proprio questo quello che accade in molte province del Centro e del Nord Italia, dove i lavoratori, pur avendo un alloggio, vengono comunque sfruttati con le stesse modalità e la stessa efferatezza che altrove. Nel rapporto del Centro ricerca interuniversitario l'Altro Diritto e Flai-Cgil, su 260 procedimenti giudiziari, oltre la metà non sono al Sud. Tra le regioni più colpite, oltre alla Sicilia, alla Calabria e alla Puglia, vi sono Veneto e Lombardia.

Dopo l’approvazione della legge 199 del 2016, la cosiddetta legge anti caporalato, qualcosa è cambiato e il sistema di sfruttamento ha iniziato ad assumere sembianze nuove, inedite e più sofisticate. La storia di Karim, ad esempio, racconta di come il ruolo del caporale – la persona che recluta illecitamente i lavoratori, sfruttando il loro stato di bisogno e trattenendo dalla loro paga il “disturbo” per il servizio – sia stato assunto da cooperative senza terra, società e agenzie che sembrano operare dentro un quadro di legalità ma che sfruttano allo stesso modo i lavoratori e le lavoratrici. 

Ma si può essere sfruttati pur possedendo una busta paga? La risposta è sì ed è quello che sta accadendo sempre di più in campagna. Il sistema più utilizzato, infatti, è la pratica del lavoro grigio, un meccanismo che si basa sul tacito – e spesso obbligato – accordo tra imprenditore e lavoratore agricolo: l’imprenditore si assicura un lavoro continuativo senza però registrare mai più di un tot numero di giornate, quelle necessarie al lavoratore per poter accedere alla disoccupazione agricola. In questo modo paga meno tasse e costringe il lavoratore a una condizione di continua subalternità. Naturalmente il bracciante lavorerà molte più giornate di quelle segnate in busta paga, esattamente come nel caso di Karim, a cui buona parte della giornata veniva pagata in nero. 

Le dimensioni del caporalato hanno radici profonde

Per capire fino in fondo le ragioni di questo fenomeno, per comprenderlo davvero, dobbiamo però abbandonare la campagna e addentrarci in un qualsiasi supermercato, è lì che troveremo gli indizi che ci faranno scoprire le ragioni dello sfruttamento. 

Basta leggere le etichette per scoprire il prezzo dell’offerta promozionale del momento: pasta, pane, passata, verdura, frutta – compresi i meloni raccolti da Karim -, non c’è nessun prodotto che non finisca nel tritacarne della scontistica dei supermercati. Offerte eccezionali per noi clienti che ricadono per intero sulle spalle dei produttori.  È vero. Le origini, le forme e le dimensioni del caporalato hanno radici profonde, spesso ancorate a una cultura imprenditoriale che fatica a modernizzarsi ma il mondo agricolo deve fare i conti con un prodotto che viene retribuito meno del dovuto.  A partire dall’arrivo dei discount nel mercato della distribuzione, la scontistica, le offerte al ribasso, le promozioni, hanno rappresentatno – e continuano a farlo – la leva principale per attrarre nuovi clienti nelle singole catene della Grande distribuzione organizzata (GDO). A farne le spese è chi sta nei campi: in agricoltura il costo del personale ha sicuramente un peso importante nella determinazione dei costi e, allo stesso tempo, è un costo comprimibile. Lo è ancora di più quando il potere contrattuale dell’imprenditore agricolo è basso o quando ci si trova di fronte ad aziende senza scrupoli e senza alcuna cultura imprenditoriale che scaricano a loro volta sulle spalle dei braccianti tutto il peso dello sfruttamento. 

Certo, bisogna sottolineare che non tutte le aziende sfruttano i lavoratori, anzi sono migliaia e migliaia quelle che fanno un lavoro straordinario. Ma è proprio per questo che non bisogna smettere di raccontarlo, anche quando il caporalato si veste di legalità, denunciarlo è l’aiuto migliore che si possa dare all’agricoltura. Del resto le proteste degli agricoltori, i trattori che hanno attraversato le strade di mezza Europa, hanno raccontato la fatica di un settore allo stremo, schiacciato da costi altissimi e una scarsa remunerazione. Interrogarsi sul giusto prezzo, mettere in campo politiche adeguate – a partire dal regolare le politiche del sotto costo della Grande distribuzione organizzata – è il primo antidoto per fermare il caporalato alla radice. 

Questo articolo è stato pubblicato su MicroMega da Fabio Ciconte, direttore di Terra!

Foto: Giovanni Culmone per Terra!

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