La COP27 si chiude tra luci e ombre

Pubblicato da Redazione

il 21/11/2022

persone riunite alla COP27

La COP27 finisce con la promessa di riparare i danni senza affrontarne le cause

L'accordo di Sharm el-Sheikh è arrivato all'alba di ieri, domenica 20 novembre, dopo che le due settimane di COP27 sono finite - come quasi sempre - ai tempi supplementari. Il bilancio è in chiaroscuro, perché la convergenza di molteplici crisi – dalla guerra in Ucraina all'inflazione globale, con in mezzo la lunga coda del Covid – ha spazzato via qualunque ambizione dei paesi partecipanti, chiamati a presentare nuovi piani per la riduzione delle emissioni. Come se, pur discutendo di clima, nel forum più importante del mondo la crisi climatica fosse ancillare ai problemi strutturali del sistema economico. Per mantenere il riscaldamento globale a livelli relativamente sicuri, tuttavia, tutte le nazioni devono ridurre le proprie emissioni molto più rapidamente. Su questo punto invece, non è stato fatto nulla.

Un barlume di luce alla COP27

Il più grande passo avanti è arrivato invece con la nascita di un fondo per riparare perdite e danni (loss&damage in gergo tecnico) causati dal clima nei paesi più vulnerabili. Si tratta di una vittoria storica per il G77, il gruppo dei paesi in via di sviluppo che porta avanti da trent'anni questa richiesta (prima ancora che nascesse il sistema delle COP). Un comitato con rappresentanti di 24 paesi elaborerà i dettagli nel corso del prossimo anno, ma qui sorgeranno i problemi. Perché a parte il contenitore, nient'altro è stato concordato. Per ora, il fondo nasce a condizione che l'onere di riempirlo non ricada tutto sui governi ricchi, che hanno tenuto a specificarlo. Chi paga e chi viene pagato sarà quindi terreno di scontro alla Cop28 di Dubai. Il fondo dovrebbe servire per portare giustizia climatica nelle politiche del clima, con le nazioni ricche e industrializzate obbligate a fornire un risarcimento per i paesi poveri e poco inquinanti, che però subiscono gran parte degli impatti degli eventi meteorologici distruttivi legati all'aumento delle temperature. Gli Stati Uniti e altri paesi sviluppati hanno però a lungo bloccato la proposta, per timore di incorrere nella richiesta di risarcimenti illimitati, cosa che il nuovo accordo esclude. Quale sarà l'importo del fondo, chi ci metterà le risorse e come saranno erogate, è ancora tutto da definire. Si staglia sullo sfondo di questo dibattito il ruolo della Cina, che ufficialmente compare come paese in via di sviluppo ma oggi rappresenta di gran lunga il primo emettitore mondiale. Entrerà nel fondo come contribuente o come beneficiario?

Finanza creativa sulla pelle di tutti

Un altro pericoloso vuoto è stato creato nel sistema di calcolo delle emissioni ridotte tramite il mercato del carbonio. Gli scambi di "tonnellate virtuali di CO2" tra paesi virtuosi e paesi meno virtuosi saranno tracciati: se un paese vende una tonnellata di carbonio all'altro, deve rimuoverla dal suo inventario. Fin qui tutto logico, per quanto il sistema sia viziato all'origine (per saperne di più, abbiamo scritto questo articolo). Ma se un'impresa privata acquista un credito di carbonio da un paese, lo scambio verrà trattato in modo confidenziale e non trasparente, con la scusa del segreto commerciale. Fatto che apre una voragine nel sistema di calcolo, favorendo il doppio conteggio della riduzione di emissioni, annullando qualunque potenziale beneficio e minando alla base la credibilità e l'efficacia del meccanismo. Con tutta probabilità - visto che lo sta già facendo - il settore privato si lancerà in massa in questo business: comprare una tonnellata di carbonio risparmiata da qualcuno serve per acquisire il diritto di emetterla senza investire nella transizione ecologica. E finché il carbonio costa poco, conviene. Se però il venditore continua a conteggiare quel credito venduto nel suo inventario, c'è il rischio che in apparenza la mitigazione venga raggiunta, ma nei fatti non lo sia per niente. Il paradosso sarebbe il raggiungimento apparente di zero emissioni nette, con un pianeta che però si scalda lo stesso. Perché la realtà non si cura dei trucchi contabili e continua a presentare il suo conto.

Si rafforza il ruolo dell'agricoltura

Un accordo è stato raggiunto anche sul fronte dell'agricoltura, fino ad oggi rimasta in ombra nelle discussioni sul clima. Adottato nel 2017, il Koronivia Joint Work on Agriculture (KJWA) è uno spazio di discussione dedicato che quest'anno ha organizzato workshop per affrontare le questioni agricole legate al clima, tra cui buone pratiche di allevamento, gestione del suolo e uso dell'acqua. I Paesi della COP27 hanno concordato a Sharm el-Sheikh che il lavoro del KJWA prosegua per altri quattro anni, un risultato raggiunto grazie alla spinta di tanti soggetti istituzionali, della società civile e del settore privato. Ciascuno pro domo sua, questi gruppi hanno però lavorato affinché si parlasse di cibo negli eventi collaterali della COP d'Egitto e il negoziato ufficiale cmominciasse ad assumere le richieste provenienti da questo mondo. Tuttavia, c'è delusione per il fatto che il gruppo di lavoro Koronivia non abbia accettato di affrontare il tema da una prospettiva di sistema alimentare, il che significa che il tema resta confinato al confronto fra le buone pratiche agricole per assorbire più emissioni o disperderne di meno. Questioni più ampie come lo spreco e le perdite alimentari, la nutrizione, le diete sane e sostenibili e la resilienza nelle filiere continueranno a essere escluse dall'accordo sul clima e non finanziate. Secondo IPES Food "la cosa più sconcertante è il fatto che, in tutta la COP27, i piccoli agricoltori siano stati lasciati fuori dalla stanza e le soluzioni da loro proposte, come l'agricoltura agroecologica, diversificata e resiliente, non siano state prese in considerazione per l'adattamento ai cambiamenti climatici, nonostante le prove inconfutabili dei loro benefici". Pur rappresentando un terzo delle emissioni globali, i sistemi alimentari restano quindi ai margini delle politiche climatiche internazionali, inchiodate a quella che viene definita "carbon tunnel vision", una visione del cambiamento climatico come un "problema di carbonio", che giocoforza implica soluzioni basate sul conteggio matematico tra emissioni e assorbimenti, senza osservare un quadro generale fatto di relazioni di potere, ricchezza, distribuzione ineguale dei benefici. L'eccesso di carbonio in atmosfera è soltanto un effetto collaterale, che può essere affrontato intervenendo alla radice del modello di sviluppo, cosa che in agricoltura è particolarmente evidente. La strada da fare è quindi ancora lunga, e il tempo che rimane sempre meno.

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