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La fine del Green Deal:

La guerra in Ucraina e lo spettro della fame


Aver cancellato le misure ecologiche ha davvero migliorato la condizione degli agricoltori europei? Il report “La transizione tradita – Come la lobby dell’agroindustria ha fermato il Green Deal in agricoltura” risponde a una domanda apparentemente non facile. Per farlo, Terra! è partita da un fatto: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio del 2022.


Lo smantellamento del Green Deal parte dalla guerra in Ucraina

Quale occasione migliore di una guerra infatti, quindi di un allarme carestia, per cancellare i primi passi verso la transizione green in UE? La guerra in Ucraina del 2022 è stata infatti la leva utilizzata dalle lobby dell’agroindustria per mettere in discussione il Green Deal, quel pacchetto di misure approvato nel 2019, che aveva come obiettivo la transizione ecologica in ogni settore economico, anche in quello agricolo. Come parte integrante del Green Deal, l’Europa si era dotata della strategia Farm to Fork, che aveva l’obiettivo di rendere il sistema agricolo più sostenibile. Ma in Europa, allo scoppio della guerra, la paura del conflitto e della carestia hanno portato molti a credere che fosse urgente rendere l’Ue autonoma dal punto di vista alimentare.

Come? Producendo sempre di più, anche a discapito della transizione verde in agricoltura.

Parallelamente, il mondo agricolo europeo scende in piazza lamentando gli scarsi profitti della categoria. Ma la protesta è stata strumentalizzata principalmente dalle lobby agroindustriali ed è stata letta come una sfida all’agenda verde dell’Ue. È nata così la polarizzazione tra agricoltura e ambiente in cui siamo calati oggi. Un contrasto strumentale solo a cancellare i pochi passi verso la sosteniblità agricola compiuti fino a quel momento. Eppure il problema alla base per migliaia di agricoltori, cioè come produrre un cibo sano e avere un reddito dignitoso, è rimasto lì senza risposte.

Il report racconta che dopo l’invasione, circa 25 milioni di tonnellate di cereali sono rimaste bloccate nei porti ucraini, in quello che da tempo viene definito “il granaio d’Europa”. Una situazione che ha mandato in crisi il sistema agroalimentare globale, aprendo la strada a quanti sostenevano che fosse utile aumentare la produzione in Ue. Ucraina e Russia coprono infatti il 30% del commercio globale di grano tenero (di quello esportato non di quello prodotto), il 17% di mais e oltre il 50% di olio di girasole.

Ma come può un Pianeta che produce circa 2.800 milioni di tonnellate di cereali l’anno andare in crisi per un ammanco dello 0.9%? Per rispondere, bisogna considerare che solo una parte dei cereali prodotti a livello globale entra nel commercio internazionale e che gran parte delle terre agricole del Pianeta è destinata a produrre mangimi per animali e per usi industriali come i biocarburanti, non per l’alimentazione umana.

I cereali bloccati nei silos ucraini erano cruciali per tanti mercati: per l’Africa e il Medio Oriente, perché servivano a produrre pane; per l’Europa, per nutrire gli animali negli allevamenti intensivi.

Quando nel luglio 2022, viene siglato l’”accordo del grano” sotto l’egida delle Nazioni Unite e della Turchia, vengono esportate oltre 32 milioni di tonnellate di prodotti agricoli. E a partire da questo momento, si fa strada l’idea che i paesi in condizione di povertà (Africa e Medio Oriente) potranno evitare la crisi alimentare. Ma quello che accade è molto più complesso. A beneficiare dell’accordo infatti, sarà il settore zootecnico dei paesi ad alto reddito, altro che povertà alimentare!

Che direzione prendono le navi cariche di cereali?

Terra! ha analizzato i dati del centro di monitoraggio dei traffici marittimi legati all’accordo, il Joint Coordination Centre (JCC), e ha seguito le destinazioni dei cereali. Su 32 milioni di cereali, quasi 8 milioni (la parte più rilevante) è stata acquistata dalla Cina. Subito dopo, a beneficiare di questi cereali, la Spagna e la Turchia, che hanno importato rispettivamente 6 e 3.2 milioni di tonnellate. Quarto posto per l’Italia, che ha acquistato 2 milioni di tonnellate di cereali perlopiù mais. Nel complesso, i paesi ad alto reddito hanno acquistato il 44% dei cereali, quelli a basso reddito solo il 2.5%. Una sproporzione enorme, che conferma che dietro l’allarme della carestia, c’era solo la volontà di privilegiare il settore zootecnico, un settore ambientalmente insostenibile e ormai in crisi economicamente.


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